CESSIONE VOLONTARIA E PIGNORAMENTO PRESSO TERZI
Rapporti e relativa opponibilità
a cura dell’Avv. Rolando Modesti

 

Il Tema della pignorabilità di emolumenti salariali, se ad una prima analisi può apparire di semplice comprensione, risulta essere al contrario, particolarmente complessa a livello interpretativo in considerazione dei limiti legali delle quote pignorabili, nel caso in cui detti emolumenti siano già colpiti da precedenti pignoramenti e/o da cessioni volontarie parziali.

La materia risulta disciplinata da normativa risalente nel tempo e nello specifico dal DPR 180/1950 e s.m.i..

Per quanto attiene in particolare alla pignorabilità delle componenti stipendiali/pensionistiche, alla quantificazione della quota pignorabile di detti emolumenti, ed alla coesistenza tra pignoramenti e cessioni volontarie, le disposizioni normative di riferimento risiedono nel Titolo 1 del citato decreto e nell’art. 68 del medesimo, oltre che all’art. 545 c.p.c..

Volendo operare una sintesi, all’interno della citata normativa, volta ad individuare le disposizioni di interesse relative all’oggetto della presente ricerca possiamo così riassumere:

Art. 2. Eccezioni alla insequestrabilità e all’impignorabilità.

Gli stipendi, i salari e le retribuzioni equivalenti, nonché le pensioni, le indennità che tengono luogo di pensione e gli altri assegni di quiescenza corrisposti dallo Stato e dagli altri enti, aziende ed imprese indicati nell’art. 1, sono soggetti a sequestro ed a pignoramento nei seguenti limiti:

  • fino alla concorrenza di un terzo valutato al netto di ritenute, per causa di alimenti dovuti per legge;
  • fino alla concorrenza di un quinto valutato al netto di ritenute, per debiti verso lo Stato e verso gli altri enti, aziende ed imprese da cui il debitore dipende, derivanti dal rapporto d’impiego o di lavoro;
  • fino alla concorrenza di un quinto valutato al netto di ritenute, per tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni, facenti carico, fin dalla loro origine, all’impiegato o salariato.

Il sequestro ed il pignoramento, per il simultaneo concorso delle cause indicate ai numeri 2, 3, non possono colpire una quota maggiore del quinto sopra indicato, e, quando concorrano anche le cause di cui al numero 1, non possono colpire una quota maggiore della metà, valutata al netto di ritenute, salve le disposizioni del titolo V nel caso di concorso anche di vincoli per cessioni e delegazioni. 

 

Art. 5. Facoltà e limiti di cessione di quote di stipendio e salario.

Gli impiegati e salariati dipendenti dallo Stato e dagli altri enti, aziende ed imprese indicati nell’art. 1 possono contrarre prestiti da estinguersi con cessione di quote dello stipendio o del salario fino al quinto dell’ammontare di tali emolumenti valutato al netto di ritenute e per periodi non superiori a dieci anni, secondo le disposizioni stabilite dai titoli II e III del presente testo unico. 

 

Art. 68. Limiti nella coesistenza di sequestri o pignoramenti e cessioni.

Quando preesistono sequestri o pignoramenti, la cessione, fermo restando il limite di cui al primo comma dell’art. 5, non può essere fatta se non limitatamente alla differenza tra i due quinti dello stipendio o salario valutati al netto delle ritenute e la quota colpita da sequestri o pignoramenti.
Qualora i sequestri o i pignoramenti abbiano luogo dopo una cessione perfezionata e debitamente notificata, non si può sequestrare o pignorare se non la differenza fra la metà dello stipendio o salario valutati al netto di ritenute e la quota ceduta, fermi restando i limiti di cui all’art. 2.

 

In ragione della già evidenziata vetustà della normativa di riferimento, la stessa disciplinava esclusivamente i rapporti di lavoro subordinato nel settore pubblico.

Tale discrepanza risulta ampiamente superata dall’intervento della Corte Costituzionale e di numerose pronunce di legittimità, l’effetto delle quali è stato determinare la assoluta equipollenza tra settore pubblico e privato nella operatività della richiamata disciplina.

Tra le molteplici può infatti individuarsi:

Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 12/12/2011) 18-01-2012, n. 685

“Il senso palesato dalle parole delle disposizioni in questione e dalla intenzione del legislatore, manifestata dai ripetuti interventi modificativi dell’originario testo normativo del D.P.R. n. 180 del 1950, non consente di dedurre altra interpretazione che l’estensione totale al settore privato della disciplina del menzionato decreto, originariamente dettato per il solo settore pubblico (in tal senso cfr. in motivazione Cass. n. 4465/11). Deve essere, dunque, enunciato il principio in ragione del quale: In tema di espropriazione forzata presso terzi, le modifiche apportate dalle L. n. 311 del 2004, ed L. 80 del 2005 (di conversione del D.L. n. 35 del 2005) al D.P.R. n. 180 del 1950 (approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni) hanno comportato la totale estensione al settore del lavoro privato delle disposizioni originariamente dettate per il lavoro pubblico.”

Chiarito tale aspetto preliminare, la lettura sistematica delle disposizioni normative citate fornisce gli elementi cardine attraverso i quali rispondere agli interrogativi principali oggetto della presente analisi.

Può stabilirsi infatti come:

  • Gli emolumenti stipendiali possono essere oggetto di pignoramento fino alla concorrenza di 1/5 valutato al netto delle ritenute fiscali e previdenziali;
  • In caso di concorrenza tra debiti di natura alimentare e debiti di natura diversa, le relative trattenute possono coesistere e la quota pignorabile dell’emolumento stipendiale non può superare la metà dello stesso;
  • In caso di preventiva cessione volontaria, la quota pignorabile non può superare, quanto a consistenza economica, la differenza tra la metà dello stipendio netto e l’importo oggetto di cessione.

Rispondendo all’esigenza di fare maggiore chiarezza, può senza dubbio operarsi un esempio pratico, applicando matematicamente i principi poc’anzi enunciati ad uno stipendio netto di € 1.500,00.

  • Per debiti della stessa natura può operarsi una trattenuta sugli emolumenti massima pari ad € 300 (1.500/5);
  • In caso di concorrenza tra debiti di natura diversa, la trattenuta stipendiale non potrà superare gli € 750 (1500/2);
  • In caso di preesistenza di una cessione volontaria (che ipotizziamo consista in € 300), il massimo pignorabile (per debiti di diversa natura) sarà pari ad € 450 (1500/2=750. 750-300= 450).

Trattandosi di applicazione pratico/matematica di una normativa risalente nel tempo, non sistematica ed uniforme, che non prevede particolari conseguenze di diritto al verificarsi di eventuali difformità nel calcolo delle trattenute da operare (demandante comunque al datore di lavoro ed al controllo a posteriori del creditore e del Giudice dell’esecuzione), risulta necessario ancorare l’odierna ricerca alle pronunce giurisprudenziali intervenute nel tempo sul tema.

A riguardo possono citarsi:

Cass. civ. Sez. III, Sent., 22/04/1995, n. 4584

Allorché concorrano più cause di pignoramento, il limite del cumulo è regolato, a sua volta, dall’art. 2, comma 2 del citato D.P.R. n. 180 del 1950.

Il decreto prevede peraltro, come è noto, la possibilità della cessione di una quota non superiore al quinto dello stipendio (art. 5) a favore di enti mutualistici specificamente abilitati, a fini di finanziamento del pubblico dipendente, con particolari garanzie ed a determinate condizioni.

Da ciò la necessità di fissare i limiti per il concorso di sequestri o pignoramenti e cessioni, limiti stabiliti dal successivo art. 68, a norma del quale, fermi restando quelli di cui all’art. 2, qualora il sequestro od il pignoramento abbia luogo dopo una cessione perfezionata e debitamente notificata, non si può sequestrare o pignorare se non la differenza fra la metà dello stipendio o salario e la quota ceduta.

Dal combinato disposto tra le due norme si evince quindi che, allorché il pignoramento od il sequestro segua ad una cessione, gli stessi incontrano l’ulteriore limite della metà complessiva, nel senso che in tal caso rimane pignorabile o sequestrabile esclusivamente la differenza tra la metà dello stipendio e la quota ceduta (e cioè, ove sia stata ceduta la quota massima di un quinto, la quota residua di tre decimi); poiché tale differenza normalmente supera un quinto, rimangono fermi il limite di un quinto per ciascun pignoramento ed i limiti previsti per il loro concorso (che, naturalmente, non potrà più raggiungere la metà dello stipendio, dovendosi sempre dedurre la quota ceduta; l’interpretazione trova anche l’avallo della sentenza della Corte Costituzionale del 24 maggio 1991, n. 220, con la quale, peraltro, è stata dichiarata inammissibile la questione di costituzionalità degli artt. 2 e 68, in quanto non rilevante nel giudizio a quo).

Cass. civ. Sez. III, 09/05/1994, n. 4488

In tema di limiti alla pignorabilità e sequestrabilità degli stipendi dei pubblici dipendenti, quali risultanti dalle parziali declaratorie – di cui alle sentenze della Corte Costituzionale n. 89 del 1987 e n. 878 del 1988 – di illegittimità costituzionale delle norme di previsione, qualora intervenga un pignoramento contenuto entro tali limiti (del quinto) successivamente ad una cessione di pari misura, regolarmente perfezionata e notificata, non è illegittima la coesistenza ed il cumulo delle due cause riduttive dello stipendio, non risultando superata quota complessiva della metà dello stipendio medesimo, posta dall’art. 68 del d.P.R. n. 180 del 1950 quale limite assoluto per il concorso di cause siffatte.

Cass. civ. Sez. III, 13/10/2023, n. 28625

Nell’espropriazione di crediti, il terzo debitore del debitore esecutato non è legittimato a far valere l’impignorabilità del bene, neanche sotto il profilo dell’esistenza di vincoli di destinazione, attenendo tale questione al rapporto tra creditore esecutante e debitore esecutato, il quale ultimo soltanto si può avvalere degli appositi rimedi oppositivi previsti dalla legge, sicché, nella espropriazione presso terzi, l’indicazione dell’esistenza di un vincolo di destinazione, che può determinare l’impignorabilità del credito aggredito in via esecutiva, non fa venir meno il carattere di positività della dichiarazione resa dal terzo ai sensi dell’art. 547 cod. proc. civ. Dunque, ricorre l’opponibilità al creditore pignorante unicamente delle cessioni di crediti anteriori al pignoramento, notificate o accettate dal debitore ceduto prima dell’iniziativa esecutiva, e non anche di negozi privati non contemplati dall’ordinamento ed espressione dell’autonomia negoziale delle parti, produttivi di effetti giuridici solo nei confronti di coloro che li hanno conclusi, ma non anche dei terzi”.

 

Tribunale di Gorizia, sezione unica civile, RG n. 1142/2019

La giurisprudenza più recente ha avuto modo di precisare che dal combinato disposto delle suddette disposizioni deve concludersi che la differenza fra la metà dello stipendio e la quota ceduta è interamente pignorabile solo se la somma della quota volontariamente ceduta e delle quote dei pignoramenti successivamente intervenuti (da intendersi ognuno non superiore al quinto) superano la metà dello stipendio, che costituisce il limite invalicabile a garanzia delle basilari esigenze di vita del debitore (Trib. Siena, 09/09/2019, n. 883).

 

Tribunale di Crotone, sezione civile, RG n. 2362/2019

La vicenda in esame concerne una di queste ipotesi, non così rare nella pratica dei rapporti di finanziamento privati, in quanto il debitore esecutato ha stipulato, a fronte di un stipendio netto pari ad Euro 1.492,79: un finanziamento con cessione del quinto pari ad Euro 300,00 mensili e contestuale prestito con delega di pagamento nella misura di ulteriori Euro 100,00 mensili per un totale di Euro 400,00 per ciascuna mensilità (ciò in data 12-3-2015); in seguito, il lavoratore ha altresì formalizzato un ulteriore finanziamento con ulteriore delega di pagamento gravante sullo stipendio per un importo mensile di Euro 234,00 (ciò in data 30-6-2017).

L’importo totale della cessione del quinto, unita alle due diverse deleghe di pagamento, è quindi pari alla somma di Euro 634,00, superiore al caso della c.d. doppia cessione del quinto – espressione invero non tecnica – e prossima al limite del 50% dello stipendio (Euro 746,39: Euro 1.492,79/2).

Ora, è evidente che mentre la cessione del quinto è un prestito assunto volontariamente dal dipendente, il pignoramento dello stipendio deriva da un precedente inadempimento ad una obbligazione e viene effettuato contro la volontà del dipendente.

A tal riguardo la legge prevede che le trattenute sullo stipendio, derivanti dalla cessione del quinto e da uno o più pignoramenti possano avvenire simultaneamente ma sempre rispettando dei limiti invalicabili che variano in base alla presenza o meno di una cessione.

La disciplina normativa trova la propria fonte nell’art. 68 del D.P.R. n. 180 del 1950 il quale dispone che “qualora i sequestri o i pignoramenti abbiano luogo dopo una cessione perfezionata e debitamente notificata, non si può sequestrare o pignorare se non la differenza fra la metà dello stipendio o salario valutati al netto di ritenute e la quota ceduta”.

Ne consegue che a fronte delle plurime trattenute, opponibili al creditore pignorante in quanto stipulate in data antecedente alla notifica dell’atto di pignoramento, la quota utilmente pignorabile sarebbe rappresentata dalla differenza tra la metà dello stipendio (Euro 746,39) e il totale delle quote trattenute (Euro 634,00), dunque entro i limiti della somma di Euro 112,39.

Ebbene, pur in presenza di un già elevato indebitamento del lavoratore dipendente, in data 10-8-2018 l’odierno ricorrente ha ottenuto un’ulteriore elargizione di somme nella forma dell’anticipazione su future retribuzioni con addebito di una rata mensile pari ad Euro 250,00.

Sul punto, si osserva come non esista una disciplina positivizzata della fattispecie, non sussistendo alcuna norma che regoli la materia o che obblighi il datore di lavoro ad anticipare parte della retribuzione prima del termine previsto dal CCNL di riferimento applicato. Non esiste persino una procedura da seguire, pena un’eventuale sanzione. La possibilità di erogare un anticipo di stipendio in busta paga è così rimessa alla sola volontà delle parti e alle singole regole aziendali.

Nel caso in esame, non può che prendersi atto della circostanza per cui il valore complessivo delle trattenute supera abbondantemente il limite del 50% dello stipendio netto mensile in quanto pari alla somma di Euro834,00 a fronte di una retribuzione di Euro 1.492,79.

Nel rapporto tra pignoramento e trattenute stipendiali a garanzia di precedenti finanziamenti, l’anticipazione su futuri stipendi, ancorché non disciplinata da alcuna previsione di legge, non può che essere ricondotta al limite della metà dello stipendio previsto dall’art. 68 del D.P.R. n. 180 del 1950 in materia di cessione del quinto dello stipendio, trattandosi di norma generale, volta a tutelare l’intangibilità di una quota minima retributiva, suscettibile di applicazione analogica a fattispecie non dissimili (in modo analogo a quanto viene concordemente affermato in giurisprudenza di merito per le delegazioni di pagamento, anch’esse, in verità, estranee alla disciplina di cui al ridetto d.p.r.).

In definitiva, in accoglimento di quanto domandato dall’attore con il primo motivo di opposizione, la dichiarazione del terzo resa ex art. 547 c.p.c. deve essere interpretata quale sostanziale dichiarazione di consistenza negativa con contestuale annullamento dell’ordinanza di assegnazione somme emessa nell’ambito del processo esecutivo mobiliare presso terzi iscritto al r.g.e.m. n. 332/2019.

 

La lettura dei provvedimenti appena menzionati, oltre a ribadire i capisaldi precedentemente evidenziati quanto alla consistenza massima della quota pignorabile (1/5), all’ammontare percentuale impignorabile dello stipendio (50%) ed al calcolo da effettuare per verificare la quota pignorabile in caso di preesistente cessione (stipendio/2 – cessione = quota max pignoramenti), pone importanti spunti di riflessione in ordine alla coesistenza di molteplici trattenute stipendiali (cessioni + deleghe + pignoramenti) qualora tale coesistenza comporti l’assottigliarsi dell’emolumento sino ad intaccare la richiamata quota indisponibile (50%).

Sul consolidato presupposto secondo il quale la cessione di quinto – trattandosi di atto dispositivo del debitore – non sia opponibile al pignoramento presso terzi (data la natura impositiva di quest’ultimo), nell’esperienza pratica professionale si è sempre ritenuto come la procedura esecutiva potesse trovare propria conclusione con l’emissione di ordinanza di assegnazione in favore del creditore a prescindere dalla presenza di cessioni/deleghe preesistenti ed a prescindere dalla consistenza economica delle stesse.

Tale prassi deduttiva, in realtà, risulta dipendente esclusivamente da una percezione limitata della infinita casistica che può manifestarsi nel contesto delle espropriazioni mobiliari presso terzi.

Invero, non vi è alcuna disposizione normativa che preveda l’inopponibilità al PPT degli atti dispositivi del debitore (cessioni + deleghe) notificate precedentemente, qualora l’importo di tali cessioni/deleghe, cumulativamente intese, superi il 50% dell’intero emolumento stipendiale o si avvicini a tale soglia.

In tali circostanze, infatti, qualora l’ammontare degli atti dispositivi del dipendente sul proprio emolumento (cessione + delega) sia di importo prossimo alla quota del 50%, il pignoramento potrà eseguirsi non sul 1/5 del medesimo ma sulla quota residua risultante dalla sottrazione tra la metà dello stipendio e l’importo complessivo delle “cessioni”.

Sembra opportuno tornare all’esempio pratico del salario pari ad € 1.500.

In caso di salario libero da precedenti cessioni la quota pignorabile è pari ad € 300 (1500/5).

In caso di precedente cessione (es. € 300), la quota pignorabile sarà sempre pari ad € 300, perché inferiore alla quota di cui all’art. 68 comma 2 (1500/2=750. 750–300=400. 300<400) e perché cumulativamente intese le due quote non superano il 50% dello stipendio (300+400=700. 700<750).

In caso di precedente cessione (es. € 300) e di delegazione di pagamento (es. € 200), la quota pignorabile sarà inferiore al normale 1/5 (1500/2 = 750. 750-300-200=250).

Tale assottigliamento della quota pignorabile risponde all’esigenza di garantire, in ogni caso, l’intangibilità della metà indisponibile degli emolumenti stipendiali.

Dalle considerazioni appena svolte, arrivando al caso limite esaminato dalla pronuncia del Tribunale di Crotone poc’anzi menzionata, ne deduciamo l’effettiva opponibilità delle disposizioni volontarie del debitore sul proprio salario nei confronti del pignoramento presso terzi, riducendone l’entità massima arrivando sino ad escluderne l’applicabilità.

Avv. Rolando Modesti

Appropriation Art e Diritto d’Autore: Analisi Comparativa delle Eccezioni e Limitazioni in Italia e Stati Uniti a cura dell’avv. Leonardo Romano

Affrontare il tema del diritto d’autore nasce dall’idea di voler sensibilizzare il legislatore alle nuove dinamiche sociali. Ed invero, in una realtà dove il termine cambiamento è spesso associato a quello di progresso tecnologico, sorge la necessità di individuare lo spazio che le nuove tecnologie ricoprono all’interno del nostro ordinamento giuridico, al fine di salvaguardare l’innovazione ma anche prevenire vuoti di tutela.

L’autore di un’opera dell’ingegno è oggi inserito in un sistema normativo volto ad apprestarvi tutela alla luce di numerose disposizioni normative.

Nel nostro ordinamento l’esigenza di curare gli interessi che ruotano attorno alle opere dell’ingegno si avverte sin dalla lettura dei capisaldi della nostra Costituzione, sebbene non vi sia all’interno della stessa una tutela imperativa, esplicita e diretta.

In Italia la legge sul diritto d’autore è la n. 633 del 1941, la quale cura la protezione delle ‘’opere dell’ingegno di carattere creativo…qualunque ne sia il modo o la forma di espressione’’.

Negli USA è Il Copyright Act del 1976 a prevedere delle categorie di opere suscettibili di tutela. In particolare, emerge che ad essere destinataria di tutela sia qualunque opera che abbia un minimo di originalità e non si palesi meramente come un’idea e che non abbia una funzionalità inscindibile dalla sua espressione.

Cos’è ‘’l’Appropriation Art’’?

l’Appropriation art sfida i principi fondamentali del diritto d’autore, intendendo con questa espressione quelle manifestazioni d’arte aventi ad oggetto la riproduzione di immagini, creazioni artistiche altrui, rendendo sfumato il confine tra copia e originale e sollevando il problema del bilanciamento tra la protezione del diritto d’autore e la libertà artistica.

Come rispondono i vari ordinamenti al fenomeno appena descritto è l’oggetto dell’analisi di questo testo.

Negli USA è ampiamente diffusa la ‘’Fair use doctrine’’, con la quale si indica l’utilizzo di un contenuto protetto senza il consenso preventivo dell’autore. Di regola il Fair Use viene riconosciuto nei casi in cui l’artista appropriazionista trasforma l’opera originale con modalità tali da attribuirle una dimensione diversa ed autonoma generando come output un messaggio nuovo e distinto rispetto all’originario.

I giudici americani provvedono all’applicazione del fair use valutando singolarmente caso per caso, basandosi su quattro fattori:

  1. La natura dell’utilizzo e le sue finalità (educativa, commerciale, non lucrativa etc.);
  2. La natura dell’opera utilizzata;
  3. La quantità ed il valore della porzione di opera utilizzata rispetto alla sua interezza.
  4. Le conseguenze cagionate dall’appropriazione sul piano del valore dell’opera e del mercato;

Occorrerà pertanto verificare se siffatto utilizzo vada a pregiudicare economicamente l’autore dell’opera protetta o vada a minare un nuovo o potenziale mercato anche se non si è in concorrenza diretta con l’opera originale.

 

Nel nostro ordinamento, invece, sono previste altresì alcune ‘’eccezioni e limitazioni’’, in particolare la legge 633 del ’41 ne detta la disciplina dall’art 65 al 71 quinquies.

Abbiamo eccezioni quando, in presenza di determinate condizioni, si permette l’utilizzo dell’opera senza il consenso dell’autore. Si tratta di limitazioni invece, quando il diritto d’autore è degradato a compenso, per legge, o attraverso l’accordo delle parti.

Il comma 2 della Convezione di Berna sancisce espressamente:’’ è riservata alle legislazioni dei Paesi dell’Unione la facoltà di permettere la riproduzione delle già menzionate opere in taluni casi speciali, purché una tale riproduzione non rechi danno allo sfruttamento normale dell’opera e non causi un pregiudizio ingiustificato ai legittimi interessi dell’autore.’’. 

A livello comunitario tale principio è stato ribadito nelle direttive 2001/29/CE, 790/2019/EU, recepite in Italia con il D.lgs. 68/2003, le quali hanno comportato l’estensione di suddette eccezioni e limitazioni.

In Italia, è prevista un’alta protezione dei diritti morali (posti a tutela della personalità dell’autore) i quali presentano peculiari caratteristiche, come il loro essere inalienabili, irrinunciabili, imprescrittibili, perpetui. È tra l’altro prevista la trasmissione di alcuni di essi agli eredi dell’autore successivamente alla sua morte.

Nel panorama statunitense il quadro dei diritti morali cambia. Infatti, solo successivamente all’adesione degli USA alla convenzione di Berna si è manifestato un bagliore di apertura rispetto ai diritti morali. Con l’entrata in vigore del Vara (Visual Artist Right Act) si è riconosciuto all’autore il diritto alla paternità e all’integrità dell’opera, seppure limitatamente agli artisti visivi.

Su tali aspetti, appare evidente come nella cornice europea permane una visione al diritto d’autore certamente diversa, ove i diritti morali sono vigorosamente radicati e certamente influisce robustamente sulla creatività e sull’espressione artistica. Negli USA, invece, i diritti morali sono più nell’ombra e ciò consente inevitabilmente agli artisti di godere di maggiore libertà di rielaborare opere esistenti, senza farsi carico di eccessive preoccupazioni di possibili controversie che possano insorgere in relazione ai diritti morali.

Legittimazione attiva alla luce della pronuncia della Suprema Corte di Cassazione del 14 maggio 2024 n. 13289 del Prof. Avv. Francesco Curti

Per la trattazione dell’argomento reputato doveroso premettere come negli ultimi anni, Dottrina e Giurisprudenza (di merito e di legittimità) si siano particolarmente interessate alla questione, giungendo ad affermare molto spesso tutto ed il contrario tutto.

Ad oggi, mi permetto di rilevare come la querelle sul tema della legittimazione attiva dei cessionari, abbia condotto alla creazione della dicotomia, non sempre chiara, tra prova della effettiva conclusione del contratto di cessione e prova dell’inclusione del singolo credito nel negozio concluso tra cedente e cessionario, come avvalorato anche dal Consigliere di Cassazione, Dott. Salvatore Saija, durante il convegno di Roma dell’Associazione T6 del 20 maggio scorso.

Detta bipartizione è stata ribadita, da ultimo, dalle pronunce della Suprema Corte di Cassazione n. 3405 del 06 febbraio 2024 e n. 17944 del 22 giugno 2023. Con le stesse è stato espressamente confermato come, la necessarietà di fornire la prova della conclusione del contratto di cessione sia imprescindibile esclusivamente in caso di espressa contestazione, talché, In tema di cessione di crediti in blocco ex art. 58 del d.lgs. n. 385 del 1993, ove il debitore ceduto contesti l’esistenza dei contratti, ai fini della relativa prova non è sufficiente quella della notificazione della detta cessione, neppure se avvenuta mediante avviso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ai sensi dell’art. 58 del citato d.lgs., dovendo il giudice procedere ad un accertamento complessivo delle risultanze di fatto, nell’ambito del quale la citata notificazione può rivestire, peraltro, un valore indiziario, specialmente allorquando avvenuta su iniziativa della parte cedente ed ancora: in mancanza di contestazioni specificamente dirette a negare l’esistenza del contratto di cessione, quest’ultimo non deve essere affatto dimostrato (in quanto i fatti non contestati devono considerarsi al difuori del cd. Thema probandum): il fatto da provare ècostituito soltanto dall’esatta individuazione dell’oggetto della cessione (più precisamente, della esatta corrispondenza tra le caratteristiche del credito contro- verso e quelle che individuano i crediti oggetto della cessione in blocco).

Da ciò, quindi, ne uscirebbe definitivamente consacrato il principio secondo il quale, in caso di contestazione circa la legittimazione attiva del cessionario, il Giudice avrebbe dovuto porre attenzione sulla effettiva portata delle argomentazioni del soggetto passivo dell’obbligazione, così da richiedere nel primo caso la prova della conclusione del contratto e nel secondo la mera prova dell’inclusione del singolo credito controverso nel negozio traslativo.

Chiarita preliminarmente la portata della questione, appare doveroso soffermarsi su quello che viene richiesto al fine di dare prova certa della legittimazione contestata in entrambe le fattispecie.

Quanto alla contestazione inerente la reale conclusione del contratto, proprio la sentenza n. 17944, conformemente a Cass., Sez. VI ord. n. 24798 del 05 novembre 2020, ha ribadito come a) la prova della cessione di un credito non è, di regola, soggetta a particolari vincoli di forma; dunque, la sua esistenza è dimostrabile con qualunque mezzo di prova, anche indiziario, e il relativo accertamento è soggetto alla libera valutazione del giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità; b) opera, poi, certamente, in proposito, il principio di non contestazione; c) va, comunque, sempre distinta la questione della prova dell’esistenza della cessione (e, più in generale, della fattispecie traslativa della titolarità del credito) dalla questione della prova deII’incIusione di un determinato credito nel novero di quelli oggetto di una operazione più complessa di cessione di crediti individuabili in blocco ai sensi dell’art. 58 T.U.B..

Il vero tema dell’argomento sarebbe, semmai, chiarire quali documenti possano sopperire alla produzione del contratto di cessione al fine di fornire la prova della cessione. Negli anni, la giurisprudenza di merio ed anche di legittimità ha assunto soluzioni diametralmente oppose, giungendo ad avallare soluzioni di apertura alla possibilità di ricorrere a presunzioni semplici derivanti da elementi univoci e concordanti come l’esistenza di una dichiarazione da parte della cedente, il possesso dei titoli o della documentazione contrattuale e contabile, l’avvio di azioni da parte del dichiarato cessionario, la produzione di documentazione notarile che confermasse l’esistenza del contratto di cessione, la circostanza che la pubblicazione in G.U. della cessione fosse stata eseguita dalla cedente. In altre occasioni, ulteriori pronunce hanno sconfessato tale orientamento esigendo esclusivamente la produzione del contratto di cessione integrale in uno al relativo elenco di crediti ceduti.

Ad oggi, pertanto, ritengo che, nessun giurista possa dare una risposta inoppugnabile sull’argomento se non consigliando sempre, ove possibile, il deposito del contratto traslativo completo degli allegati ed in caso di mancata produzione del medesimo, richiamare l’orientamento presuntivo facendo leva sul principio di libero convincimento del giudice di merito, in assenza di precedenti riconoscimenti impliciti od espliciti della qualità del cessionario.

Questione diversa è invece quella relativa alla prova piena da fornire in sede giudiziale relativamente all’inclusione di uno specifico credito nella cessione.Proprio con la sentenza n. 13289 del 14 maggio 2024, la Cassazione ha ribadito come si sia dunque, affermato che in tema di cessione in blocco dei crediti bancari, è sufficiente a dimostrare la titolarità del credito in capo al cessionario la produzione dell’avviso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale recante l’indicazione per categorie dei rapporti ceduti in blocco, senza che occorra una specifica enumerazione di ciascuno di essi, allorché sia possibile individuare senza incertezze i rapporti oggetto della cessione. Tale orientamento, in fase di consolidamento, è solo successivo alla più recente pronuncia del Supremo Collegio n. 21821 del 20 luglio 2023, con la quale espressamente, a seguito di cassazione con rinvio, è stato precisato testualmente che, in caso di cessione in blocco dei crediti da parte di una banca, ai sensi dell’art. 58 TUB, è sufficiente, allo scopo di dimostrare la titolarità del credito in capo al cessionario, la produzione dell’avviso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale recante l’indicazione per categorie dei rapporti ceduti in blocco, senza che occorra una specifica enumerazione di ciascuno di essi, allorché gli elementi comuni presi in considerazione per la formazione delle singole categorie consentano di individuare senza incertezze i rapporti oggetto della cessione, sicché, ove i crediti ceduti sono individuati, oltre che per titolo (capitale, interessi, spese, danni, etc.), in base all’origine entro una certa data ed alla possibilità di qualificare i relativi rapporti come sofferenze in conformità alle istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia, il giudice di merito ha il dovere di verificare se, avuto riguardo alla natura del credito, alla data di origine dello stesso e alle altre caratteristiche del rapporto, quali emergono dalle prove raccolte in giudizio, la pretesa azionata rientri tra quelle trasferite alla cessionaria o sia al contrario annoverabile tra i crediti esclusi dalla cessione.

Per dovere di cronaca, comunque, appare doveroso evidenziare come, nonostante le richiamate recentissime pronunce, i Giudici territoriali fin troppo spesso, si discostano da tali principi, rendendo incerto il lavoro dei Procuratori dei cessionari, ai quali come al Cliente che ha richiesto un mio parere, mi sento modestamente di consigliare, in attesa di un intervento per quanto possibile chiarificatore delle Sezioni Unite, di produrre o comunque chiedere sempre e comunque ai propri assistiti, di fornire contratto di cessione e relativo allegato dell’elenco dei crediti ceduti, con richiesta per quest’ultimo, di indicare i riferimenti numerici riconducibili al singolo rapporto in contestazione. Ove questo non sia stato possibile, di insistere anche nei successivi gradi di giudizio al fine di veder applicati i principi di cui ai paragrafi che precedono.

Prof. Avv. Francesco Curti

Addio udienza contestuale… Articolo del Prof. Avv. Francesco Curti

La Corte di Cassazione, con la pronuncia 5921 del 27 febbraio 2023, ha confermato, speriamo definitivamente, il proprio orientamento sulla natura meramente dichiarativa della pronuncia di estinzione dell’esecuzione immobiliare, emessa a seguito del deposito delle rinunce depositate da tutti i creditori costituiti muniti di titolo esecutivo.

Con la recentissima ordinanza emessa dalla III Sezione civile, la Suprema Corte ha ribadito il proprio precedente orientamento che nel 2017 (Cass. Sez. III n. 27545 del 21 novembre 2017) aveva superato la pronuncia del 2008 (Cass. n. 6885 del 14 marzo 2008), con la quale, al contrario, era stata affermata la natura costitutiva della dichiarazione di estinzione.

Nello specifico, gli Ermellini hanno ribadito come per la natura e la struttura dei procedimenti di esecuzione, il momento in cui tutti i creditori muniti di titolo, depositando le rispettive rinunce, di fatto manifestano la volontà di non proseguire la procedura medesima, rendono la stessa insanabilmente estinta per mancanza di soggetti titolati a darvi impulso, in conformità al principio nulla executio sine titulo.

L’ordinanza in commento, oltre ad essere particolarmente interessante per la riflessione che comporta sul tema, avrà un sicuro risvolto pratico su tutte quelle situazioni in cui nonostante le stringenti tempistiche dell’esecuzione e le perduranti limitazioni che ancora oggi non hanno permesso un ritorno al passato per ciò che concerne l’accesso nei Tribunali, ove molti giudici continuano a negare la fissazione di udienze in presenza per la dichiarazione di estinzione delle esecuzioni, si potrà, ciò nonostante, far estinguere l’esecuzione senza il timore che un successivo intervento, precedente la formale dichiarazione del Giudice dell’Esecuzione, comprometta l’intera operazione che ha portato al deposito delle rinunce medesime.

Come noto, l’imminente data fissata per la vendita del compendio pignorato è un forte sprone per l’esecutato per portare l’ultima offerta transattiva vicina alle richieste dei propri creditori, talché, fin troppo spesso, il componimento bonario della vicenda si raggiunge a ridosso dell’asta, avendo ormai superato i termini per il deposito dell’istanza di sospensione ex art. 624bis c.p.c. e dovendo sempre fare i conti con il rischio che il nostro Giudice si discosti dall’orientamento che considera meramente dichiarativa la natura del provvedimento di estinzione. In tali casi, il rischio del possibile intervento di nuovi creditori titolati, nonostante il deposito delle rinunce, ha comportato, sovente, l’abbandono della possibile soluzione stragiudiziale, in danno soprattutto dell’esecutato, che di conseguenza si vedeva l’immobile aggiudicato in asta a favore di terzi e la perdurante situazione debitoria pertinente il resisual.

La conferma dell’orientamento del 2017 si spera possa aver fugato, una volta per tutte, ogni dubbio sulla possibilità di procedere all’estinzione dell’esecuzione anche senza la fissazione dell’udienza in cui “contestualmente” l’esecutato soddisfi le ragioni dei creditori, questi depositino dichiarazione di rinuncia ed il Giudice dichiari l’estinzione della procedura a salvezza del bene pignorato.

Per completezza, segnalo come la pronuncia in commento offra spunti di particolare interesse anche sulla natura esecutiva del mutuo in relazione alla più o meno contestuale traditio della somma mutuata.

Riflessioni ed interrogativi sugli effetti della Sentenza della Corte Costituzionale n. 128/2021

Dal 22 giugno tutti gli Avvocati italiani si stanno interrogando sulla portata della Sentenza della Corte Costituzionale del 22 giugno 2021 n. 128, pubblicata in pari data, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 13 XIV comma del D.L. n. 183 del 31/12/2020, convertito con modificazioni nella legge n. 21 del 26/02/2021. Ora, se da un lato appare opportuno dare un’interpretazione prudenziale agli effetti della pronuncia, dall’altro, non si comprendono le varie interpretazioni date da molti Giudici italiani, che con una malcelata sicurezza esigono di procedere con il deposito dei ricorsi in riassunzione entro la data del 30 giugno 2021, per tutte le procedure esecutive aventi ad oggetto immobili adibiti ad abitazione principale. Premetto che, personalmente ho scelto, come la totalità dei Colleghi che conosco, di percorrere la via maggiormente prudenziale, pertanto, da giorni, io e i miei laboriosissimi Collaboratori, stiamo procedendo a riassumere “come se non ci fosse un domani”.
Ciò detto, comunque, quello che non riesco a spiegarmi è non solo come si possa legiferare in maniera così cieca, senza pensare agli effetti di una normativa che interessa decine di migliaia di procedimenti ma, anche come si possa dare, da parte di alcuni Tribunali, una lettura estremamente restrittiva delle disposizioni normative in materia alla luce della pronuncia costituzionale in commento, senza neanche sollevare dubbi interpretativi o spunti di riflessione.
La prima domanda che farei ai Giudici delle esecuzioni è “chi da loro tutta questa sicurezza circa l’efficacia retroattiva della pronuncia di illegittimità costituzionale, dalla quale fanno discendere la doverosità di procedere in riassunzione entro la fine del mese di giugno 2021, ovvero, entro 6 mesi dal 1 gennaio 2021, primo giorno da cui, avendo perso di efficacia la proroga dell’art. 54-ter del D.L 17/03/2020 n. 18 e successive modifiche, ovvero, l’art. 13 XIV comma del D.L. n. 183 del 31/12/2020, convertito con modificazioni nella legge n. 21 del 26/02/2021, ritengono inizi a decorrere il termine di 6 mesi di cui all’art. 627 c.p.c.?”.
La seconda domanda che farei è “perché ritengono pacificamente applicabile il termine di 6 mesi previsto dall’art. 627 c.p.c. e non il termine di 3 mesi previsto dall’art. 297 c.p.c.?”
Ulteriore quesito lo focalizzerei sulle ragioni per cui, alcuni Tribunali, primo tra tutti quello capitolino, ritengono necessario il deposito di ricorsi in riassunzione qualora non vi sia già la fissazione di una futura udienza di comparizione.
Innanzitutto, voglio precisare che, non ritengo del tutto illogiche le conclusioni fatte proprie dalle varie realtà territoriali, mi chiedo solamente perché si pronuncino con tale certezza e perentorietà senza sollevare interrogativi, come al contrario hanno fatto molti altri loro colleghi, vedi ad esempio il Tribunale d Civitavecchia, che dopo aver espresso un suo parere ed aver riportato quello di Emeriti Giudici della Suprema Corte di Cassazione, ha poi optato per consigliare di procedere in via prudenziale con il deposito dei ricorsi in riassunzione entro il medesimo termine del 30 giugno.
La mia riflessione, ribadisco, non si conclude con il negare l’opportunità di procedere prudenzialmente al deposito degli atti di impulso suddetti, bensì, al porre accento sulle certezze che alcuni fanno proprie che, a mio modesto parere, al contrario, hanno molti punti che sarebbe interessante affrontare in maniera maggiormente critica e costruttiva, soprattutto in ottica futura, così che si possa scongiurare quello che sta accadendo in questi giorni, in cui il mio studio e quello di moltissimi altri Colleghi, sono fermi nelle attività ordinarie per procedere alla redazione e deposito dei ricorsi in commento.
Ciò premesso, quanto alla prima questione, aprendo la Carta Costituzionale, all’art. 136 leggiamo come al primo comma sia stabilito che le pronunce di illegittimità comportino la perdita di efficacia della norma attenzionata, solo dal giorno successivo la pubblicazione. Ciò detto, quindi, l’interpretazione letterale della disposizione, comporterebbe che, la proroga di cui all’art. 13 XIV comma del D.L. 183 del 31/12/2020, avrebbe perso di efficacia dal 23/06/2021, con conseguente dies a quo per il calcolo del termine di riassunzione, proprio da tale data. Certo, anche uno studente al secondo anno di giurisprudenza sa che le norme sono soggette a varie tipologie interpretative ma, di certo, quella letterale, quando la disposizione risulta essere particolarmente chiara, è di sicuramente il punto di partenza. Autorevole Dottrina riconosce un effetto retroattivo della pronuncia esclusivamente per giudizio in cui è stata sollevata la questione di legittimità, limitando l’efficacia erga omnes dal giorno successivo la pubblicazione. Tale impostazione è anche ben illustrata sul sito ufficiale della Corte, ove per l’appunto, viene esclusa una efficacia ex tunc generalizzata, se non in ambito penale, ricollegandosi, presumo, al noto principio del favor rei.
Quanto alla seconda questione di cui sopra, confermo il mio scetticismo pertinente la sicurezza dichiarata dai più, circa l’applicabilità dell’art. 627 c.p.c., che prevede 6 mesi per il termine della riassunzione della procedura esecutiva. Chi sostiene che le procedure sospese in forza dell’ormai celeberrimo art. 54-ter, andrebbero riassunte nel termine semestrale di cui all’art. 627 c.p.c., giustifica la propria convinzione riconoscendo carattere generale alla disposizione medesima. I miei dubbi sulla conclusone cui erano giunti alcuni Tribunali, era dovuta al fatto per cui nessuno apparentemente faceva menzione della possibile applicabilità del minor termine di 3 mesi, codificato all’art. 297 c.p.c.. Rianalizzando le varie disposizioni codicistiche sull’argomento, mi sono convinto sempre di più della possibile necessarietà di procedere con il deposito dei ricorsi in riassunzione nel minore termine trimestrale. La mia convinzione si è consolidata soprattutto dopo la lettura della recentissima sentenza della III Sezione civile della Corte di Cassazione, che il 12 maggio 2021 con la pronuncia n. 12685, sembrerebbe aver affermato il principio contrario. Nello specifico, la Suprema Corte sembrerebbe aver affermato che, l’art. 627 c.p.c. così come ad esempio anche l’art. 624.bis II comma c.p.c., si porrebbero come leggi speciali applicabili ai soli casi in esse codificati, mentre per tutte le altre casistiche, il termine per la riassunzione della procedura esecutiva sarebbe quello trimestrale di cui all’art. 297 c.p.c., in quanto, norma di carattere generale.
La mia ultima perplessità poi, è relativa alle “direttive” che alcuni Tribunali hanno dato sulle modalità di riassunzione. Ad esempio, il Tribunale di Roma, ma non è il solo, ha chiarito che per le procedure esecutive immobiliari romane, qualora non fosse stata fissata una futura udienza, si sarebbe dovuto procedere con la riassunzione (da parte del soggetto più diligente e nel termine semestrale di cui all’art. 627 c.p.c.) e per tutte le altre che, invece, avevano già un’udienza futura fissata o addirittura programmati gli esperimenti di vendita, non sarebbe stato necessario procedere con i relativi ricorsi di impulso. Orbene, anche in questo caso, non sono riuscito a rinvenire disposizioni normative che possano giustificare tale differenziazione. O la procedura è sospesa e allora va riassunta (e di certo, non d’Ufficio) o la procedura non è sospesa e allora avrebbero potuto riassumerle tutte d’Ufficio, senza costringere tutti gli Avvocati italiani a passare gli ultimi giorni di giugno a redigere e depositare migliaia e migliaia di ricorsi.
In conclusione comunque, va evidenziato che a prescindere da quanto disposto o “suggerito” dai vari Tribunali, il problema rimarrà sempre per noi Legali che, dovremo, in futuro, fare i conti con le sicure opposizioni che si moltiplicheranno, ed a nulla varrà quanto previsto dai singoli Giudici se non rispondente alla corretta interpretazione di tutte le disposizioni interessate dalla vicenda. Inutile anche confidare nell’intervento risolutorio del Legislatore che, spesso non fa altro che complicare maggiormente le cose. Quindi, come sempre, rimaniamo solo noi, con la nostra testa e l’aiuto dei Colleghi, unici con cui da sempre, con piacere, mi confronto e spesso riusciamo a districarci in questo mare di incertezza.
Termino qui questa mia riflessione e (ri)vado a riassumere…..
Avv. Francesco Curti

L’ANNOTAMENTO DELL’IPOTECA – CASS. 26/02/2021 N. 5508
a cura del Prof. Avv. Antonello Veneziano

La Sezione III della Cassazione è tornata, finalmente, ad esprimersi sulla natura dell’annotamento dell’ipoteca in ambito di cessione del credito.

Con la Pronuncia n. 5508 del 26 Febbraio 2021, la Suprema Corte ha riconosciuto la funzione di mera pubblicità notizia dell’annotamento, disattendendo l’orientamento che attribuiva alla medesima una funzione costitutiva della garanzia reale posta a tutela del credito ceduto, precisando che “trattandosi di mera pubblicità notizia che sarebbe potuta avvenire anche dopo il decreto di trasferimento e anche successivamente alla sua trascrizione, la circostanza che la stessa, a ben vedere, non sia più possibile per l’effetto purgativo, conseguente al decreto traslativo pronunciato, non può ostare alla collocazione in prelazione del credito la cui cessione sia stata idoneamente palesata al giudice dell’esecuzione in tempo utile alla sua valutazione distributiva, e pertanto anche ai creditori concorrenti e all’esecutato”.

Nello specifico, gli Ermellini hanno ribadito come, in tema di negozi dispositivi dell’ipoteca, l’annotazione nei registri immobiliari del trasferimento abbia carattere costitutivo del nuovo rapporto ipotecario meramente dal lato soggettivo, rappresentando un elemento integrativo indispensabile della fattispecie del trasferimento, con l’effetto di sostituire al cedente o surrogante il cessionario o surrogato, non solo nella pretesa di credito, che -come sempre rimarcato anche in dottrina- opera in ragione del negozio, ma, altresì, nella prelazione annessa al diritto reale di garanzia, motivo per cui la mancata annotazione nei confronti dei terzi priva di effetti la trasmissione del vincolo (art. 2843, secondo comma, cod. civ.). Ciò nonostante la Corte ha altresì rilevato come in sede di distribuzione, la disposizione dell’art. 2916 c.c. vada coordinata con quanto previsto dall’art. 2843 c.c., in modo da distinguere tra disciplina generale della circolazione del diritto reale di garanzia, cui accede la prelazione, e collocazione poziore del cessionario del credito assistito da ipoteca opponibile alla procedura perché anteriore al pignoramento, nella distribuzione del conseguente ricavato.

Nella pronuncia in esame viene rilevato che l’ipoteca già presente e iscritta, non aggrava la posizione, in questa prospettiva cristallizzata, degli altri creditori concorrenti, essendo per loro indifferente che a soddisfarsi in via privilegiata sia o meno il cedente così come il surrogante. Orbene, dunque, se è il pregiudizio dei creditori che giustifica l’inefficacia di atti successivi, quale minimo comune denominatore teleologico sotteso anche agli artt. 2913, 2914 e 2915, cod. civ., laddove lo stesso manchi, quell’inefficacia non ha ragion d’essere, e infatti non trova nell’”acquis” codicistico specifici riferimenti che la giustifichino esplicitamente. Nello specifico, viene osservato come non sia ipotizzabile la collocazione in chirografo, in sede distributiva, di un credito assistito da un’ipoteca opponibile alla procedura esecutiva, solo perché ceduto, dopo il pignoramento, senz’annotazione.

La solizione fatta propria dalla III Sezione della Corte di Cassazione, come è evidente, se venisse fatta seguita dai Tribunali nazionali, potrà aprire scenari interessanti in tutti quei casi in cui l’annotamento non sconti la tassazione fissa, con la conseguenza del possibile risparmio del 2% sul montante ipotecario che potrebbe rendere maggiormente convenienti le varie operazioni acquisitive.

La lettura del testo integrale offre comunque molteplici ed ulteriori spunti di riflessione sull’argomento, che meritano di essere approfonditi attentamente.

Sarà ora interessante monitorare nel concreto quale risposta daranno gli operatori del settore e come verrà recepito il principio chiaro ed univoco degli Ermellini della III Sezione, in attesa, verosimilmente di una futura pronuncia a Sezioni Unite

 Scarica il testo della Sentenza Cass. 26/02/2021 N. 5508